(Morrovalle)-Roma-Il Cairo; Il Cairo-Nairobi. E’ così che inizia il mio viaggio. Un viaggio aspettato una vita, desiderato, programmato e vissuto con la mente ancor prima di prenotare quell’aereo, ancor prima di prendere quella laurea triennale che mi ha consentito di dire “ok, il mio percorso universitario sta andando bene, ora devo dare una possibilità ai miei sogni e dedicarmi un po’ di tempo per realizzarli”.
E dopo infinite discussioni tra le mura di casa, ho preso la mia decisione. Vado in Kenya. Volevo vedere davvero cosa c’era intorno a me. Mi chiamo Marco e sono un ragazzo di ventitre anni. Avevo bisogno di capire se tutto ciò che finora avevo visto sui documentari e letto nei libri esisteva davvero, avevo bisogno di toccare con mano, di andarmene dalla culla ovattata. Nell’ultimo anno avevo viaggiato molto, visitando diverse città europee. Tutto ciò mi affascina, andare alla scoperta di culture nuove, di città mai viste prima, ambienti e persone mai conosciute e con punti di vista totalmente diversi dai tuoi, tutto davvero stimolante. E’ per questo che amo viaggiare, un viaggio può darti tanto, a partire da chi hai intorno.
Non mi bastava più andare in giro per Praga, Monaco o Berlino. Per quanto fossero delle città meravigliose, ora avevo bisogno d’altro. Non potevo accettare di non aver combattuto mai per nulla nella mia vita. Conoscevo gente partita da niente, che con sacrifici e sudore aveva costruito la propria vita, gente come i miei nonni o i miei genitori, come i nonni e i genitori di molti altri e sapevo che molta altra gente magari durante lo stesso percorso non aveva avuto la stessa fortuna o addirittura non aveva neanche potuto permettersi di sognare un’altra vita. Io in ventitre anni ho sempre avuto tutto. Non ho combattuto per avere una casa in Ancona nei miei primi tre anni universitari, non ho combattuto per pagare le tasse universitarie, né per avere il mio computer e tantomeno per ricomprare la macchina distrutta in una notte d’inverno in cui ero ancora troppo immaturo. Non potevo continuare a pensare che il mondo funzionasse così.
Eccomi qua finalmente. Sono in Kenya da circa un mese e mezzo. L’inizio non è stato semplice, per il primo mese ho vissuto con un ragazzo spagnolo ospitato da una famiglia africana. Non era quanto stabilito con l’associazione con cui sono partito, avrei dovuto vivere in una casa con altri stagisti e le cose non stavano andando esattamente in quel modo. La NGO per cui avrei dovuto lavorare in questo periodo non stava facendo molto e in un mese avevo solamente preparato una conferenza per spiegare che cos’è un business plan, conferenza tenuta all’aperto, tra fango e foglie, davanti a nove persone con la traduttrice inglese-kiswahili, attaccando in fretta dei fogli di carta su dei bidoni sperando che non iniziasse a piovere. Speranza vana, dopo venticinque minuti la conferenza era finita.
Dopo un mese ho cambiato associazione e casa, si stava trasformando in una sfida di sopravvivenza senza scopi e senza nulla da fare e non era quello che cercavo. Nonostante tutto sono contento di aver vissuto il mio primo mese con loro, voglio bene a quelle persone. La gente in quel condominio mi aveva fin da subito accolto alla grande e i ragazzini erano grandiosi. Col loro sorriso commovente e i loro vestitini consumati, ti abbracciavano e ti toccavano, ti chiamavano Mzungu, il bianco europeo. Per loro sei Il Diverso per eccellenza, ti accarezzano, ti toccano i capelli che a loro sembrano così “soft”, ti tirano i peli delle braccia e delle gambe perché loro hanno solo una leggera peluria, ti toccano curiosi la barba. Quando cammini per strada senti urlare anche a distanza di cento metri “mzunguuuuuu, mzunguuuuuu.. how are you?” e a loro basta un “I’m fine, thanks” per scoppiare a ridere. Se poi ti avvicini e stringi loro la mano è festa grossa per tutti e non ti mollano più.
Questa gente mi sta insegnando molto. Credevo di venire in Africa e toccare con mano la sofferenza, non è così. La gente è felice, vive nel proprio limitato orizzonte, in quelle due stanze per famiglia ma è sorridente. Fanno di tutto per ospitarti, per darti il meglio. Per loro sei speciale e ti accolgono come un re. Githurai è il nome del villaggio in cui ho vissuto il mio primo mese, non avevamo acqua corrente e acqua calda e la doccia te la facevi gettandoti addosso un secchio d’acqua. Mangiavamo ogni giorno le solite cose, hanno una dieta povera e il perché è immaginabile: sukuma (una sorta di spinaci), ugali (farina di mais e acqua, una simil mollica di pane bagnata e insapore), cabbagge (cavoli), chapati (come fosse la pasta delle nostre crepes), patate e banane. Vi assicuro che non è semplice mangiare per un mese, ogni giorno, pranzo e cena, solo questi cibi, soprattutto se sei italiano, aggiungerei. Dato che quando la giornata va male ti basta sedere a tavola e mangiarti uno di quei succulenti spaghetti al pomodoro, che mi mancano da matti, per far sì che la giornata cambi in meglio.
Quando ho detto a Josephat (il trentenne boss della mia Ngo e anche colui che ci ospitava) che il mattino seguente me ne sarei andato, ero pronto ad uno scontro verbale, avevo già pagato la quota mensile e speravo tutto andasse per il meglio ma oramai avevo deciso, non poteva non lasciarmi andare. Nonostante le difficoltà e la penuria della varietà di cibo offerta, apprezzavo quello che facevano per me e Pablo, ci trattavano come dei re. Per noi quella forse non è vita, eppure io mi sentivo quasi viziato tra loro, ci portavano da mangiare, ci lavavano i vestiti. Fatto sta che inizio a spiegargli le mie ragioni, non mi interrompe mai, annuisce soltanto. Alla fine mi guarda e mi dice che se questo è quello che voglio, è giusto che vada. Mi dice che probabilmente ho ragione e che è stato speciale conoscermi.. e che sono il benvenuto qualora volessi tornare a trovarli. Trattenevo le lacrime perché non avevo voglia di aprirmi così, però cazzo, avrebbe potuto dirmi qualsiasi cosa, stavo mollando la sua associazione con cui avevo anche una sorta di contratto, un’altra ragazza li aveva mollati qualche settimana prima e magari con la moglie (in attesa di un secondo figlio) avevano fatto dei progetti, contando sulla disponibilità economica portata da me e dall’altra ragazza, che avevamo previsto di trascorrere lì tre mesi. Eppure mi stava ringraziando di quanto fatto e mi ripeteva il suo invito. Stavo ricevendo l’ennesima lezione di vita, queste persone mi stavano riempiendo il cuore con la loro umiltà e il loro sorriso.
Ora vivo con un ragazzo pakistano, un neozelandese, un ivoriano, tre tedesche e due ragazze olandesi. In una casa un po’ più “casa”, ho frigorifero, acqua corrente e una WATER. Ma soprattutto sto lavorando con una nuova associazione, una realtà totalmente differente. Si trova all’interno di uno slum, che in Africa rappresenta la povertà estrema. Il mio primo progetto è un gran progetto, quello che sognavo di fare e che mi permette di entrare in contatto con la comunità. Sto facendo una ricerca riguardante il percorso dei ragazzini dell’associazione una volta conclusa la primary school, per capire se continuano con la secondary school o meno, se non continuano quali sono le ragioni e cosa stanno facendo ora, e se continuano capire perché la maggior parte di loro va fuori Nairobi. Ho due ragazzi dello slum che mi fanno da supporto, non potrei andare in giro solo perché è pericoloso e perché non saprei come muovermi. Entro nelle case delle famiglie, parlo con loro e chiedo informazioni riguardo ai loro ragazzi.
Lo slum è quanto di più ingiusto e crudele possa esistere al mondo. Il fango dello slum è diverso da quello del mio villaggio, è più scuro, è nero, sembra trasporti la sofferenza e i detriti della speranze delle persone che vi vivono. Sono delle casupole i cui pilastri sono rami legati con delle corde, intorno ai quali mettono quattro lati di lamiera a mò di parete. Di queste casupole ce ne sono a milioni, una appiccicata all’altra. Per terra solo fango e immondizia, tanta immondizia e un fortissimo odore nauseabondo. Banane, plastica, bottiglie, erbacce, escrementi, vestiti.. di tutto. Lo slum non ha rete fognaria, quindi la gente espleta i propri bisogni dove capita o in un sacchetto che poi buttano per strada, perché ci sono pochissime zone disposte a bagni “pubblici”, di cui potete immaginare le condizioni. Non c’è una scuola per i bambini fino ai cinque anni, quindi prima del loro quinto anno sono abbandonati al loro arbitrio, tra il fango e i rifiuti, talvolta scalzi talvolta con delle ciabattone troppo grandi per il loro piede, per la loro età. Proprio un paio di giorni fa, girando per lo slum per la mia ricerca, trovo d’improvviso alla mia sinistra una specie di discarica, perché nonostante sia il villaggio stesso una discarica, evidentemente ogni tanto spostano parte dei rifiuti ammucchiandoli dove c’è un po’ più di spazio. Non dimenticherò mai la scena vista quel giorno: sopra una collina di rifiuti, un bambino scalzo con dei calzoncini gialli strappati e una maglietta consumata, che masticava qualcosa come fosse del fildiferro con attaccato all’altro capo un camioncino giocattolo in cui metteva preziosi reperti trovati tra i rifiuti, gli escrementi e le mosche. La ragazza che era con me, che sta lavorando come fotografa, ha scattato una foto. Mi sono girato dall’altra parte, non volevo vedere, era tutto troppo violento, una realtà non accettabile, non era un film. Siamo talmente distaccati da tutto questo, talmente abituati a vedere scene di questo genere o a ricevere notizie di morte dai telegiornali, che abbiamo perso parte della nostra umanità, della nostra sensibilità. Perché vivere una situazione del genere è difficile, avrei dovuto spaccare la macchina fotografica della ragazza, salire su quella collina d’immondizia e tirar via quel bambino da lì. Perché non esiste raziocinio al mondo che possa giustificarmi una scena del genere e non esiste ragione per cui quel bambino non fossi potuto essere io. Per questo non tollero il razzismo, non tollero la discriminazione, mali portati dall’ignoranza più profonda e bieca. Perché dovrei solamente ringraziare Dio ogni giorno per quello che mi ha dato, eppure non lo faccio, eppure ho il coraggio di lamentarmi quando credo che qualcosa nella mia vita non vada per il verso giusto. Non so perché sono nato a Morrovalle e perché sono figlio di questi meravigliosi genitori, non so perché in mezzo a tutta quell’immondizia c’era lui e non io, non so chi abbia deciso che non nascessi in una baracca.. ma ora che conosco le condizioni in cui vivono queste persone, una cosa la so. Non mi darò per vinto, non mollerò facilmente e se avrò forza d’animo, coraggio e fortuna proverò ad aiutare chi è stato più sfortunato di me, perché se hai 3 anni e ti trovi con i piedi immersi in un mare di immondizia a rovistare per qualcosa da mangiare, la colpa non può essere tua.. e neanche di tuo padre e tua madre, mio piccolo amico.