La relazione di Armando Santarelli alla 30ma Tendopoli

Innanzitutto, un po’ di etimologia, sempre utile, ma in questa occasione addirittura necessaria, perché la correlazione fra “ospite” e “straniero” è già nell’etimo di queste due parole. Ospite, infatti, deriva dal latino hospes (che, come sappiamo tutti, trattiene la doppia accezione, rimasta in quasi tutte le lingue romanze, di “colui che dà ospitalità” e di “colui che riceve ospitalità”) di cui il primo elemento, hos, è imparentato con la voce hostis, che significa straniero, forestiero. Per completare l’etimo della parola “ospite”, rileviamo che il secondo elemento (pes, pets) rimanda invece al sanscrito pati, o ghas-pati, cioè padrone di casa, signore, dalla radice pa che vuol dire sostenere, proteggere; quindi, hospes avrebbe il significato originario di “colui che accoglie e sostenta i forestieri”.

La correlazione rivelata dall’etimo è semplicemente una conferma di quanto ci suggerisce la natura delle cose: quasi sempre, quando siamo ospitati, e dunque quando ci troviamo fuori dal nostro ambiente, avvertiamo un senso di estraneità, di spaesamento. E’ una situazione che non è difficile spiegare, ma che merita un approfondimento. A causa della sua insufficienza biologica, della carenza di quell’istinto posseduto invece dagli animali – che rispondono senza esitazione, senza l’inquietudine della scelta, agli stimoli ambientali – l’uomo, per abitare il mondo, ha dovuto modificarlo; i suoi strumenti, lo sappiamo tutti, sono stati la cultura e la tecnica. Ma modificando il mondo, l’uomo modifica e costruisce continuamente se stesso; in effetti, l’uomo si costruisce come risonanza dell’ambiente di cui fa esperienza. Ecco dunque che il contenuto della vita psichica di ognuno finisce per coincidere con la rappresentazione del mondo elaborata dal proprio nucleo socio-culturale, che può divergere da quella di un altro, e  apparirci strana, inaccettabile.

Tuttavia, noi non avvertiamo un senso di inquietudine, di estraneità, solo quando usciamo dal nostro ambiente. Spesso ci capita di avvertire un’estraneità più generale, un disagio che non riguarda il nucleo che ci accoglie, ma il mondo, la nostra condizione umana. E’ una situazione esistenziale iscritta profondamente nella nostra storia, nella nostra origine, ed è di nuovo l’etimologia, insieme all’antropologia, a rivelarcelo. In effetti, seguendo le tracce indoeuropee delle parole hospes (in latino), host (in inglese) e gast (in tedesco) ci troviamo già nel cuore di ogni antropologia; infatti, le prime sillabe di queste parole, ho e ga, nel loro rapporto di parentela con homo e gomo, rimandano all’uomo. L’espressione homo, a sua volta, rimanda al latino humus, al greco chton, al sanscrito ghom, dunque all’uomo come essere terreno, nato da una madre terra originaria, da cui, un giorno, sarà di nuovo inghiottito. La caducità, la finitezza dell’uomo ne fa un essere debitore di un ospitante sotterraneo, ed è anche in questo senso che dobbiamo interpretare l’espressione di Davide “io sono un ospite sulla terra”.

Siamo tutti ospiti sulla terra, perché la terra non è nostra, perché, come evidenziò Heidegger, esistere vuol dire ek-sistere, essere nel mondo standosene al di fuori, essere nel mondo ma non del mondo. Siamo ospiti nel cosmo, e in questo senso è meraviglioso constatare come filosofia greca e sapienza orientale siano in perfetto accordo; Lao-Tzu guarda al Tao per dare un ordine alla vicenda umana, e Platone, nelle Leggi, scrive: “Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo… Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu, piuttosto, vieni generato per la vita cosmica”.

Naturalmente, il punto di vista cristiano è diverso: siamo ospiti sulla terra perché su questa terra siamo di passaggio, perché la nostra vera e ultima patria è l’Aldilà, il Paradiso. A questo proposito, voglio citare una straordinaria testimonianza, che compare negli scritti degli Apologisti greci, cioè quegli autori che continuano il lavoro di fusione tra filosofia greca e dottrina cristiana iniziato dai Padri apostolici. I più importanti fra gli Apologisti greci sono Giustino martire, Taziano l’Assiro, Atenagora di Atene e l’anonimo autore della Lettera a Diogneto. Quest’ultima è un documento eccezionale, in cui l’identità dei cristiani è determinata con parole chiare e vigorose: “Abitano nella propria patria, ma come stranieri, partecipano a tutto come cittadini, e tutto sopportano come forestieri; ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è per loro terra straniera… Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo”.

Dunque, l’ospite è straniero, e sentirsi straniero è inquietante. Ho preso a prestito, come forse saprete, un’espressione dei Frammenti postumi di Nietzsche, che preconizzava l’avvento del “più inquietante fra tutti gli ospiti”, il nichilismo, ovvero la mancanza di senso che consegue al dileguarsi dei valori, di ogni ordine di finalità.

La previsione di Nietzsche è oggi condivisa da molti pensatori, Emanuele Severino e Umberto Galimberti su tutti. Secondo questi filosofi, l’ipotesi nichilista, che da sempre accompagna la filosofia occidentale, è divenuta oggi la realtà del mondo, clima della terra, “spaesamento di tutti i paesaggi che gli uomini hanno costruito per abitare la terra” (Galimberti). Perché si è verificato questo? La risposta è che in Occidente regna ormai la tecnica, una forza che non ha riguardo ai valori, che non ha alcun fine da realizzare, ma solo dei risultati. La tecnica che, da strumento nelle mani dell’uomo, è diventata l’ambiente dell’uomo; se il mezzo tecnico è la condizione necessaria per realizzare qualsiasi fine, allora il conseguimento del mezzo diventa il vero fine, che tutto subordina a sé.

E’ chiaro che, se la tecnica è la condizione che decide il modo di fare esperienza, mutano gli scenari storici, i modi tradizionali di intendere l’etica, la politica, la cultura. In passato, qualsiasi rappresentazione del mondo, o mutamento della stessa, avveniva in un orizzonte antropologico, perché, in misura maggiore o minore, ciascun membro della società contribuiva a costruire la visione del mondo del nucleo di cui era parte. Ma in un mondo dominato dalla tecnica, dalla descrizione mediatica del mondo, l’esperienza individuale di ciascun membro della società viene meno, perché nello spazio globalizzato i media ci esonerano dall’andare sul posto e fare esperienza diretta. Non più l’uomo che esplora il mondo, ma il mondo che in immagine si offre all’uomo.

E’ una vera e propria trasformazione antropologica: l’anima non costruisce più se stessa come risonanza del mondo di cui fa esperienza, limitandosi a riprodurre la rappresentazione del mondo che i media forniscono nello stesso modo a tutti. E’ l’abolizione della differenza tra interiorità ed esteriorità, il dislivello prometeico di cui parla il filosofo Gunther Anders, ovvero l’incapacità di rimanere al corrente con la nostra produzione, di interiorizzare il mondo della tecnica, che perciò resta straniero per la nostra anima.

E’ ovvio che non stiamo mettendo in discussione l’utilità della tecnica, gli enormi progressi che ci ha consentito di realizzare in ogni ambito della nostra vita; basti pensare ai traguardi raggiunti nel campo della medicina, o agli esperimenti in corso in un laboratorio della California, dove si sta cercando di riprodurre la reazione termonucleare che avviene nel Sole, ottenendo così energia pulita, al riparo dai rischi del nucleare e dall’inquinamento degli idrocarburi. Ma non possiamo neppure nasconderci la pervasività, il vero e proprio dominio che la tecnica esercita ormai sulle nostre vite. Proprio di recente, Jaron Lanier, uno dei pionieri della realtà virtuale, ha detto che non possiamo trasformare i computer in un Dio, non possiamo distorcere le nostre capacità di esseri umani affidando le nostre scelte agli algoritmi. E Evan Baden, uno dei giovani fotografi americani di maggior talento, dopo un lungo lavoro sulla vita quotidiana degli adolescenti, ha affermato in un’intervista: “C’è un’intera generazione nuova la cui vita intima di relazione è gravemente compromessa dalla tecnologia”. Non c’è da stupirsi. Heidegger, in L’abbandono, aveva scritto: “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento”. E’ difficile negare che la funzionalità oggettivata della tecnica vada a scapito della cultura soggettiva degli individui; le categorie che abbiamo ereditato dall’età pre-tecnologica si rivelano inadeguate per confrontarsi con l’onnipotenza della tecnica.

La signoria della tecnica, che non ha riguardo per l’interiorità umana, è uno dei motivi, e vengo al tema del mio intervento, che mi hanno avvicinato all’Athos, uno dei pochi luoghi al mondo che rifiuta la tecnica, anche se non in toto. Ma a questo punto è opportuno darvi le notizie essenziali relative al Monte Athos, l’Agion Oros dei greci, uno dei luoghi più affascinanti, misteriosi e inaccessibili del pianeta.

-Descrizione del Monte Athos: penisola lunga una sessantina di Km., larga da 7 a 10, con una superficie di 337 kmq (dunque, molto più grande dell’isola d’Elba, che misura 223 kmq), sovrastata da un monte, il Monte Athos, che raggiunge i 2033 metri. Un territorio bellissimo, incontaminato, che ospita 1453 fra specie e sottospecie vegetali, con numerosi endemismi locali. Spesso si sente dire che il Monte Athos è una “Repubblica monastica”, ma l’espressione è impropria. Infatti, il Monte Athos è parte integrante dello Stato greco, che, come recita la Costituzione ellenica del 1975, “mantiene intatta la sovranità sul territorio”. Se si continua a scrivere e a parlare di “Repubblica monastica”, è perché il Monte Athos può contare su un’autonomia amministrativa sconosciuta a qualsiasi altra entità territoriale incorporata in uno Stato sovrano. La Costituzione greca parla di “area autonoma”, “in conformità al suo antico regime privilegiato”, fissato, a sua volta, nei vari tipikà athoniti (gli antichi statuti) e nella Carta Costituzionale del Monte Athos (il documento, promulgato dalle Autorità athonite nel 1924, che regola la condizione giuridica della Santa Montagna). In sostanza, il governo del Monte Athos rimane in capo agli igumeni dei venti grandi monasteri; come osservò lo scrittore Robert Byron, che visitò l’Athos negli anni ’30, è il caso, unico al mondo, di un’entità territoriale che ha imposto la propria costituzione allo sovranità di cui fa parte!

Ma la vera peculiarità di questo territorio, davvero unica al mondo, è quella di essere abitato da millenni solo da monaci ed eremiti: praticamente, nessun laico ha mai abitato il Monte Athos. E’ intorno al IV secolo che le impervie pendici del Monte Athos cominciano ad essere popolate da monaci anacoreti. La vocazione alla spiritualità di questo luogo santo attira presto altri eremiti, e nell’anno 883 una crisobolla dell’imperatore Basilio I il Macedone riconosce ai monaci dell’Athos l’uso esclusivo, in pratica la proprietà, del territorio che occupano. Nell’anno 963 un monaco di Trebisonda, Atanasio, fonda il primo monastero, Megisti Lavra, dando inizio al cenobitismo athonita; il suo modello prevede la condivisione di un regime semplice e austero, con un’equa ripartizione, nell’arco della giornata, delle ore di liturgia, di lavoro e di riposo. Presto sorgono altri monasteri, e poi skiti, cioè piccoli villaggi di casette strette intorno alla chiesa centrale, ma l’anacoretismo al Monte Athos non viene mai meno, perché, in omaggio alla vocazione originaria del luogo, l’esistenza isolata e contemplativa degli eremiti continua ad essere considerata come la più alta forma di spiritualità.

Le notizie che vi ho dato sono quelle che comparivano nell’articolo, letto molti anni fa, che ha originato il mio interesse per il Monte Athos. Ma quell’articolo conteneva cose molto più belle e alte: parlava di una comunità religiosa sopravvissuta al primitivo cristianesimo orientale, di un territorio privo di rete elettrica, automobili, tv, radio, un’oasi di celeste bellezza dove i monaci trascorrevano la notte nel canto e nella preghiera. Com’è possibile, mi chiedevo, scegliere di vivere un’esistenza quasi medievale? A che pro trascorrere tante ore nella preghiera e nelle liturgia? Perché rifiutare gli agi e la tecnologia? Una sola visita all’Athos è sufficiente a dare la risposta a questi interrogativi. E la risposta è Dio, naturalmente. Tutta la vita  del monaco athonita ruota attorno a Dio, così come gli edifici dei monasteri ruotano attorno al katholikon, la chiesa centrale. Offrirsi interamente a Dio: è questo che conta, all’Athos. Perciò, perché cambiare? L’Athos non vuole cambiare, non vuole “il meglio”, perché è convinto di possedere il bene, anzi, il bene supremo, ovvero una vita dedicata interamente alla ricerca dell’Assoluto. Per questo l’Athos lotta contro lo spietato assedio della secolarizzazione, per questo ha saputo mantenere intatta la sua millenaria tradizione spirituale, ciò che fa dire con orgoglio ai monaci la frase che ho udito molte volte sulla Santa Montagna: qui comanda la tradizione. All’Athos, ha scritto uno studioso di cose sacre, Renato D’Antiga, “ciò che per l’uomo moderno è irreale rappresenta invece la realtà suprema, la realtà ultima, mentre il reale della vita moderna è inteso come un qualcosa di effimero, di vano”.

Ecco lo sconcerto del pellegrino, ecco perché ci si sente stranieri, al Monte Athos. La realtà senza compromessi del Monte Athos si pone come un’autentica provocazione per l’uomo occidentale. Puntando dritto verso Dio, l’Athos è un mondo a rovescio per chi è abituato a fissare lo sguardo solo sulle cose terrene. Da millenni all’Athos i monaci si destano alle tre del mattino, per la preghiera e la liturgia, perché la giornata del monaco viene scandita dal tempo liturgico, e non dall’orologio. All’Athos si mangia due volte al giorno, in modo vegetariano; durante le agrypnìe, le vigilie della grandi feste, si rimane in chiesa anche per dodici ore consecutive. Istintivamente, il pellegrino pensa che sia tutto esagerato, incomprensibile, che i monaci siano un po’ tutti matti. Ma basta porre delle domande, e le risposte sono lì, nette, chiare, capaci di fugare ogni dubbio. Perché rimanete tante ore in chiesa, a che serve? La risposta, icastica, è del teologo Basilio di Iviron, uno degli igumeni del Monte Athos: “Che cosa fa l’embrione nel grembo materno? Niente, ma poiché è nel seno di sua madre si sviluppa e cresce. Così il monaco. Anche noi viviamo dentro l’utero della nostra madre. E ci rendiamo conto che le relazioni che ci legano alla Chiesa sono relazioni organiche”.

Questo è l’Athos, l’ultima grande oasi spirituale della Cristianità. Per questo l’Agion Oros respinge chi non è capace di adattarsi al suo severo clima spirituale. All’Athos sono convinti che togliere un sasso equivalga a far crollare l’intero edificio. E quando il pellegrino pensa che sia un atteggiamento troppo rigido, i monaci athoniti sorridono, e passano semplicemente a fare degli esempi. Uno dei più grandi teologi ortodossi contemporanei è Padre Emiliano Vafeidis, igumeno del monastero athonita di Simonos Petra. Dopo essere stato ordinato prete e aver trascorso un periodo di lotte ascetiche in un monastero della Tessaglia, Padre Emiliano fu nominato igumeno del monastero della Trasfigurazione, alle Meteore. Ben presto, la sua sapienza teologica e il suo carisma destarono nell’ambiente meteorico un grande risveglio spirituale. Ma l’entusiasmo durò poco: disturbati dall’apertura al sesso femminile e dallo sfruttamento turistico delle Meteore, Emiliano e i suoi discepoli, nell’anno 1973, decisero di raggiungere il Monte Athos, insediandosi nel monastero di Simonos Petra. Gli anziani del cenobio, a dispetto della giovane età dei nuovi confratelli (quasi tutti al di sotto dei venticinque anni), decisero di affidare loro la conduzione del monastero; in breve tempo Simonos Petra incrementò la propria popolazione monastica e vide rifiorire la vita spirituale. Dopo Padre Emiliano, anche Padre Alessio, subentratogli come igumeno nel monastero della Trasfigurazione, si determinò a lasciare le Meteore, andando a ripopolare con i suoi monaci il monastero athonita di Xenophontos. Ciò che è accaduto alle Meteore è emblematico dell’odierna condizione di molti luoghi sacri, assediati da un turismo sempre più invadente. Per questo l’Athos tiene duro sul famoso divieto denominato avaton, e cioè il bando per il sesso femminile, una regola che esiste da sempre al Monte Athos, anche se fu codificata solo all’inizio del XII secolo dall’imperatore bizantino Alessio I Comnenos. E’ una delle regole più discusse del Monte Athos, fonte di infiniti contrasti, ma sulla quale i monaci athoniti non vogliono cedere, convinti come sono che essa sia determinante per salvaguardare il clima di assoluta dedizione alla spiritualità che caratterizza l’Agion Oros. Ha ancora ragione di esistere un divieto che risale a migliaia di anni fa? Come spesso accade, la risposta varia a seconda del punto di vista che si assume. Se ci mettiamo sul piano della stretta legalità, è ovvio che il divieto è ingiusto, perché viola il principio di uguaglianza fra i sessi. Tra l’altro, il Monte Athos è patrimonio mondiale dell’UNESCO, e la Grecia percepisce fondi comunitari per il suo mantenimento. E’ anche vero, però, che il particolare status del Monte Athos, fondato su millenarie ragioni storiche, è garantito da una Costituzione, quella greca, che ha recepito in toto il particolare statuto del Monte Athos. Ma soprattutto, come si sente ripetere più volte quando si parla di questo straordinario lembo di terra, “l’Athos è l’Athos”. Stiamo giudicando di una delle ultime oasi spirituali della Terra, una comunità monastica che continua a trarre la sua forza, e la sua ragione di esistere, dalla non conformità alle regole del mondo. I monaci dell’Athos, sul problema, nutrono pochi dubbi: tutti quelli con cui ho avuto modo di parlare si sono dichiarati favorevoli al mantenimento del divieto. “Entrino pure, le donne”, mi hanno detto parecchi di loro, “saremo noi ad andarcene”. Alcuni hanno reagito con una certa irritazione: “Prima le donne, poi lo sfruttamento turistico, proprio come alle Meteore. Infine, non è mancato, discutendo dell’eventuale apertura alle donne, il sarcasmo di un paio di monaci, pronti a citare un adagio che circola da tempo immemore nel mondo athonita: “Monaco, se sei giunto a un bivio, e da una parte vedi una donna, dall’altra il diavolo, ebbene, scegli la strada del diavolo”. Piaccia o non piaccia, ci sono alcuni punti fermi nella controversia: anzitutto, l’Athos non avverte la mancanza dell’universo femminile, abituato com’è a farne a meno da sempre. Secondo, l’Athos è consapevole che la presenza femminile potrebbe rappresentare una seria minaccia per un equilibrio monastico rimasto pressoché inalterato per interi millenni. Molto importanti, al proposito, mi sembrano le osservazioni che il fotografo e scrittore greco Kiros Kokkas ha esposto in un importante opera edita nel 2002 e intitolata Monte Athos, Porta del Cielo: “Con tristezza, quanti ricevono benefici spirituali dall’Athos hanno individuato nel voto del Parlamento europeo il secco e altezzoso diniego, ancora una volta espresso dall’opulenta società occidentale, dei valori ascetici espressi dalla comunità aghioritica. Si tratta, in realtà, di un rifiuto che non si limita al monachesimo della Santa Montagna. L’episodio rivela, infatti, quanto siano determinanti coloro i quali vorrebbero unificare il nostro continente rifiutando il ruolo delle radici spirituali cristiane che, tra primo e secondo millennio, ne hanno corroborato la coesione spirituale”.

Chiunque abbia visitato il Monte Athos, toccando con mano la severa vita ascetica che vi si conduce, non può non trovarsi d’accordo con Kokkas. Il Giardino della Panaghia merita il mantenimento di un’esclusione discutibile e per certi versi dolorosa, ma forse necessaria per la conservazione della sua originaria tradizione spirituale.

La vocazione del Monte Athos alla solitudine, alla contemplazione, alla perenne ricerca dell’unione con Dio ha consentito alla Santa Montagna di conservare intatto il suo gioiello spirituale, la preghiera esicastica, o preghiera del cuore, o preghiera di Gesù, strumento privilegiato dell’incessante cammino del monaco verso Dio. Ma che cos’è questa preghiera che i Santi Padri paragonarono a un vaso di essenze profumate, che faceva sentire il pellegrino russo l’uomo più felice della terra, così leggero “da credere di non avere più corpo”? E’ una preghiera semplice, di poche parole, che riassumono, però, un’intera teologia: “Kyrie Iesou Christé, Yié tou Theoù, eleison me tòn amartolòn” (“Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”).

Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio: tutte le Scritture sono condensate in questa frase, che celebra la gloria del Creatore e il riconoscimento che Gesù Cristo è Figlio di Dio e Dio Egli stesso; Abbi pietà di me peccatore: nei Racconti di un pellegrino russo, il monaco dell’Athos incontrato per caso dal narratore commenta splendidamente: “Nessun’altra espressione potrebbe essere così essenziale e completa come lo è questa. Ad esempio, se dicessimo ‘Perdonami! Rimetti i miei peccati! Purificami dalle colpe! Cancella i miei crimini’, questo significherebbe soltanto che la nostra anima paurosa e negligente chiede di evitare il castigo. L’espressione abbi pietà di me manifesta invece non solo il desiderio – dettato dal timore – di essere perdonati, ma anche il gemito dell’amore filiale che confida nella misericordia di Dio e riconosce umilmente la propria incapacità di sottomettere la volontà e di avere uno spirito vigilante; è un’invocazione di misericordia, cioè non solo un’implorazione di remissione dei peccati, ma anche una richiesta del dono divino della fortezza spirituale, un dono che rinsalda la resistenza alle tentazioni e consente di sconfiggere l’inclinazione al peccato”. 

La breve frase che compone la preghiera di Gesù viene ripetuta dal monaco esicasta incessantemente, sincronizzando le parole con la respirazione e con il battito cardiaco. In questo modo, il monaco dell’Athos raggiunge uno stato spirituale privilegiato, il riposo nel Signore, l’unione con Dio, l’esichia, la perfetta quiete interiore.

Con l’acutezza che gli è propria, il critico letterario dell’Osservatore Romano, Marco Testi, ha scritto: “Quello che cerchiamo nelle nostre palestre con lo yoga o la meditazione zen sta anche qui, nell’esausto Occidente. La preghiera esicastica diviene meditazione, controllo del respiro e del corpo, ascolto delle profondità archetipe in cui soma e psiche sono ancora insieme”. Certamente, la pace interiore si raggiunge attraverso una disciplina lunga e rigorosa. Ma nonostante le sofferenze, la vita degli atleti in Cristo del Monte Athos, che come artisti lavorano se stessi giorno dopo giorno, è una vita di philokalia, di amore della bellezza, perché coronata dall’intima gioia dell’unione col Cristo lucente del Tabor.

Non c’è monaco del Sacro Monte che non si riconosca nelle parole del folle in Cristo Massimo: “Gli uomini credono che occorra prima amare gli uomini e poi amare Dio. Anch’io ho fatto così, ma mi sono accorto che non serviva a nulla! Quando invece ho cominciato ad amare Dio prima di tutto, in questo amore di Dio ho ritrovato il mio prossimo, e nello stesso amore di Dio i miei nemici sono diventati i miei amici, anzi, creature divine…”

Ecco che cosa è ancor oggi il Monte Athos, ecco la convinzione del monaco athonita, il suo assoluto: la cosa più importante della vita è la ricerca del bene e della verità, e il bene, la verità, la salvezza, le possiamo trovare soltanto in Dio. Si può non essere d’accordo con questa visione della vita, si può vivere senza Dio, ma allora, dicono i monaci, non dovete stupirvi se nel mondo regnano inquietudini, paure, insoddisfazioni, infelicità; se vogliamo vivere senza Dio, saremo anzitutto noi a risentirne. In passato, tutti concordavano sul fatto che la chiave per la felicità, sia quella interiore, sia quella che ci attende dopo la morte, risiedesse nella relazione dell’essere umano col divino. Il materialismo e la psicanalisi si sono incaricati di smantellare questa convinzione, riducendola a una superstizione.

Ma Marx e Freud si sbagliavano quando dichiaravano superata la religione: molti esseri umani non si contentano del qui ed ora, sentono che manca qualcosa, qualcosa di spirituale, l’abbraccio con l’Assoluto, con l’eternità.

Ecco, nel modo giusto, o nel modo sbagliato, il Monte Athos offre delle risposte a domande alle quali la scienza, che certamente tutti noi rispettiamo e amiamo, non può rispondere. In questo senso, la religione e la filosofia sono strumenti ineliminabili del nostro amore per la vita e la verità, non meno della scienza. Si può credere o non credere, ma un viaggio nel misticismo del Monte costringe anche atei ed agnostici a pensare, a fermarsi e a contemplare, a rimettere in discussione le ossessive scelte materialistiche che informano la vita odierna, aprendo così uno spazio di conversione.

L’ultimo pensiero voglio dedicarlo proprio all’Agion Oros, al mio luogo dell’anima. Ripeto, sono contento di avervi esposto un poco della sua bellezza, della sua grazia. Eppure, pensate, mi viene anche da chiedere scusa al Monte Athos, perché in un mondo dove non tace più nessuno, dove tutti, nel frastuono generale, cercano di far emergere la propria voce, il Monte Athos si ostina a non volersi mostrare, a stare in disparte, a rimanere in silenzio.

                 Armando Santarelli