Raccontare la propria vocazione, elencare le motivazioni fondanti, spiegare perché un giovane decida di consacrare tutta la vita al Signore è un compito non facile, poiché arduo è trovare parole che significhino pienamente ciò che vive l’animo dopo l’incontro con Dio.

Tuttavia, proverò a comunicare comprensibilmente quello che ha provocato in me incrociare lo sguardo di Cristo lungo il sentiero della mia vita.

Nel novembre del 1997 alcuni padri passionisti furono chiamati per realizzare una missione al popolo, di due settimane, nel mio paese. Ricordo, ancora, che nel vedere un missionario, mi colpì immediatamente l’abito nero ed in particolare il segno, un cuore passionista, su di esso apposto. Partecipai ai centri d’ascolto per giovani e al termine della missione, mantenni dei contatti con un padre specialmente, ero curioso, infatti, di conoscere lo stile di vita dei passionisti. Per accontentare simile volontà, mi furono dati alcuni testi, tra cui la biografia del Beato Pio Campidelli, chierico passionista morto a soli ventuno anni. La lettura della sua vita mi aveva appassionato e trasportato tanto da conquistarmi. Nel contempo continuavo a frequentare le scuole superiori, a praticare nuoto, equitazione ed altre passioni, proprie di un adolescente. Malgrado ciò, non provavo più un amore viscerale per questi miei interessi pur esercitandoli con uguale costanza. Andavo dunque riflettendo, dentro di me, cosa realmente fosse accaduto negli ultimi mesi da provocare tal effetto anche con i miei amici. Nel mio cuore era avvenuto qualcosa d’inspiegabile e incomunicabile che tentavo di capire anche con l’aiuto del sacerdote passionista. Mi accorgevo che, se da un lato diminuivano le mie attenzioni per gli hobby ed i miei riguardi per i compagni, dall’altro, come nel caso di grandezze inversamente proporzionali, cresceva in me sempre una maggiore considerazione e riflessione sul senso di certi accadimenti, su cosa dovevo fondare la mia vita e perché. Tante le domande, poche o mediocri le risposte. Sebbene occorressero forse valutazioni più suadenti, certe, presumibilmente più savie, non mi sono preoccupato molto nel ricercarle poiché una nascente, ma convincente determinazione e un’irrefrenabile e ferma volontà appassionavano il mio animo a voler intraprendere un cammino di vita particolare.

Dopo aver verificato quest’intenzione e dopo averne parlato anche con la mia famiglia, ho scelto di entrare in convento ed il 10 settembre 1998 ho cominciato la mia prima esperienza, finita nel mese d’ottobre dell’anno seguente. Trascorsi tre anni ho deciso di rientrare e di riprendere il cammino, creduto definitivamente terminato. Quando domandai, infatti, di tornare a casa, non chiesi un periodo di riflessione, ma di concludere irrevocabilmente l’esperienza iniziata, poiché non sentivo più l’inclinazione alla vita religiosa. Ero persuaso di aver perso motivazione, interesse, slancio, passione per quel modo di vivere, e ritenevo che l’innamoramento iniziale fosse diminuito e non si fosse trasformato in amore, come invece accade tra due veri amanti. Ritornai così in famiglia e ripresi a frequentare la scuola superiore, gli amici e le passioni che avevo lasciato. Perché, dunque, nuovamente questa decisione? Nel periodo passato nell’ambiente d’origine, ho sperimentato un’intensa sofferenza e una profonda e soffocante inquietudine. Travagli oltre che fisici, soprattutto interiori. Ho creduto di poter programmare autonomamente il mio futuro, di poter gestire la mia vita, prendendone un assoluto controllo. Alla disponibilità iniziale di lasciarmi guidare da un Altro, ho sostituito la fierezza di un ragazzo ingeneroso e prepotente, convinto di trovare in sé e nella propria intelligenza la soluzione ai problemi. Simile alterigia mi ha portato a costruire grattacieli di sale e a riporre fiducia in ideali che presto l’esperienza di vita avrebbe abbattuto e spazzato via senza pietà. Inevitabilmente nel mio cuore mi sono sentito perso e smarrito, turbato e senza forza. Desideravo la felicità e dovevo accontentarmi di rubarne attimi, magari piacevolissimi, ma pur sempre attimi, di una felicità, poi, incapace di colorare i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni, la vita. Annichilito, con fatica sono rientrato in me stesso, aiutato particolarmente dal confronto con alcuni religiosi rimasti amici, e mi sono accorto che trovare sostentamento lontano da Dio, soddisfare una volontà illusoriamente difenditrice e promotrice del mio bene, in altri termini voler essere il creatore, era un’infima e ingannevole pretenziosità che non mi rendeva più forte ma più debole, non più amante ma egoista, non più vivente ma morto.

In questo stato di confusione, di povertà e di bisogno ho pensato di essere rimasto solo, di aver perduto ogni cosa, anche la più cara. E invece non mi sono accorto dell’amore incantevole di cui ero circondato. Sono rimasto stupito dell’amore totalmente gratuito, silenzioso e oblativo della mia famiglia in tutto questo tempo così delicato. Ho ripensato, allora, alla mia storia e interpellato, ho cominciato a rispondere con amore più generoso e attento, più da figlio, ai miei genitori.

Questa stupefacente esperienza non è stata che il riflesso di un Amore paterno illimitatamente, indefettibilmente, ineffabilmente più perfetto, chinatosi su di me per rialzarmi e per donarmi quella felicità e quella pace tanto bramate. Lo stupore disarmante è stato veder come quest’Amore mi abbia avvinto e mi si sia offerto non per meriti particolari, non per dovere e non per interessi, ma solo per tenerezza. Mi sono sentito, infine, un bimbo spogliato e bisognoso di afferrare la mano benevola del Padre e di seguirlo dove mi avrebbe indicato, presentandogli la mia umanità e offrendogli la mia vita.

Oggi mi trovo al Monte Argentario per vivere il mio anno di noviziato al termine del quale, insieme ad altri cinque compagni, emetteremo la nostra prima professione religiosa nella Congregazione della Passione.

Matteo, PIET