Non bastano le opere di carità se manca la carità delle opere”

Celebre affermazione di don Tonino Bello che prende spunto dagli orientamenti pastorali della CEI degli anni ’90 “Evangelizzazione e testimonianza della carità”.

Alcune precisazioni sul titolo

  • Non dice: non servono le opere di carità…, ma: non bastano le opere di carità. Come a dire: servono, ma non bastano, non sono sufficienti. Rientra in un contesto di “perfezione” richiesto al discepolo di Gesù che non si limita a soddisfare un precetto (faccio le opere di carità perché bisogna farle). Si tratta di riempire ciò che facciamo con motivazioni più profonde

  • La seconda precisazione è sulla parola carità. Di solito il primo significato che si dà a questa parola è: elemosina, toglierci di torno chi ci chiede la carità. Nel migliore dei modi pensiamo alla caritas, struttura deputata a scodellare minestre, distribuire i pacchi viveri e gli indumenti raccattati qua e la. Ma il significato è ben altro. Carità: dal latino caritas che deriva dall’aggettivo carus. In origine questo aggettivo aveva il significato di costoso, che costa molto (ancora oggi si dice che un oggetto è troppo caro e si parla di carovita). Già in latino carus aveva assunto anche un valore più ampio e indicava non solo ciò che aveva un prezzo alto ma anche un grande pregio: una cosa o una persona cara perché particolarmente stimata e amata. I ‘cari’ erano soprattutto i parenti più stretti, i membri della propria famiglia. Caritas indicava che qualcosa o qualcuno era carus e, in particolare, indicava il sentimento di stima ed affetto o addirittura di amore. Il cristianesimo assorbe molti termini utilizzati nella vita civile e politica romana che assunsero un preciso significato religioso. Caritas venne utilizzato per significare l’amore in senso religioso, l’ amore che Dio creatore ha verso le sue creature e che tutti gli uomini, in qualità di figli di Dio, devono avere verso di lui e fra di loro (Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore e il prossimo tuo come te stesso). La carità, con la fede e la speranza, diviene una delle tre virtù teologali, fondamentali per il cristiano, virtù che provengono da Dio stesso. Anzi, dice s. Paolo, la carità è la più grande. Da tenere presente, inoltre, che caritas viene utilizzato per tradurre la parola greca Agape (amore disinteressato. Cfr le tre parole per dire amore nel greco classico: eros, philia e agape ed agape significa anche banchetto, convito).

Caritas è dunque il termine più adatto per tradurre l’amore di Dio. Deus caritas est, Dio è amore (1 Gv 4,8; prima enciclica di Benedetto XVI).

Perché questa precisazione? Perché se non capiamo il significato vero e profondo di carità, rischiamo di pensare al Dio-carità come a colui che ci fa l’elemosina, che ci sta dando gli spiccioli, si toglie le monetine, ma soprattutto si toglie dalle scatole noi scocciatori.

Ritorniamo al tema: perché “non bastano le opere di carità…”? Perché c’è un rischio sempre presente, un problema nel nostro modo di servire, di esercitare la carità. “Se manca l’amore da cui partono le opere, se manca la sorgente, se manca il punto di partenza che è l’Eucaristia, ogni impegno pastorale risulta solo una girandola di cose”. (T. Bello).

Una icona ci può aiutare ad entrare nella comprensione di tutto ciò. È la bellissima e conosciutissima pagina del vangelo di Luca (10, 38-42):

Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

Come potete ben vedere questo problema già c’era ai tempi di Gesù. Per Marta era tempo sprecato fermarsi ad ascoltare Gesù, con tutto quello che c’era da fare. Ovviamente sono due modi diversi di esprimere accoglienza: dedicare tempo alla persona che si accoglie (Maria) e darsi da fare perché l’ospite possa rifocillarsi (Marta). Ma per entrare nel testo bisogna vederlo nella sua collocazione all’interno del Vangelo di Luca. Nei versetti precedenti (Lc 10, 25-37) Gesù aveva raccontato la parabola del buon samaritano e nei versetti che seguono l’episodio di Marta e Maria Gesù insegna la preghiera del Padre nostro e parla dell’importanza della preghiera (Lc 11,1-13). Quindi prima parla dell’importanza dell’aiuto e dell’amore verso il prossimo e lo fa con un esempio concreto, con un fatto, con delle persone; poi parla della preghiera, come a dire: attenzione, ti rimarrà difficile fare il buon samaritano se non preghi, cioè se non entri in relazione con colui che è il buon samaritano della tua vita, se prima non fai l’esperienza di essere stato curato e amato dal tuo buon samaritano che è il Signore. Ma torniamo alla nostra icona, a questo brano che sta proprio nel mezzo. Per secoli questo testo è stato inteso e utilizzato proprio per creare quasi una spaccatura, una divisione: è più importante la preghiera del servizio. Ma nel Vangelo di Luca questo testo non viene messo per creare contrapposizione, per mettere una sorella contro l’altra, bensì per dire che il servizio prende forma, diventa vero, se parte dall’ascolto e dalla preghiera. La nostra non deve essere semplice filantropia, ma carità.

Cosa risalta in questo episodio? L’acidità di Marta “non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Sta quasi rinfacciando il servizio che sta facendo. Dobbiamo constatare che ciò capita ancora oggi: quante volte, nei servizi che facciamo, anche noi rinfacciamo agli altri quello che stiamo facendo, la nostra fatica…Se non partiamo dall’ascolto e dalla preghiera faremo pure tante cose, ci agiteremo, come Marta, ma dopo un po’ ci stancheremo perché viene a mancare la motivazione di fondo e molto spesso si arriva a facili abbandoni…

Quali sono, allora, i passaggi da fare?

Il punto di partenza è l’amore di Dio. Scoprire e vivere questo amore che Dio ha nei miei confronti. Lui è il buon samaritano della mia vita. È lui che mi raccoglie dalla strada. È lui che si accorge di me, che si accorge delle ferite che mi sono procurato o che gli altri mi hanno inflitto (quando la nostra vita dipende dagli altri, quando ci fanno del male mostrandoci una felicità finta, di facciata). È lui che si prende cura di me, mi cura e paga per le mie cure perché non vuole solo tamponare le ferite, non vuole mettere solo un cerotto, ma vuole la guarigione totale. È lui il buon samaritano. E con quale moneta paga per farmi guarire? Donando la sua vita

Voi sapete come siete stati liberati da quella vita senza senso che avevate ereditato dai vostri padri: il prezzo del vostro riscatto non fu pagato in oro o argento, cose che passano; siete stati riscattati con il sangue prezioso di Cristo. Egli si è sacrificato per voi come un agnello puro e senza macchia”. (1 Pt 1,18-19).

Gesù non si è limitato a parlarci di amore. È passato ai fatti. Ha dimostrato di amarci sul serio morendo in croce per noi. “E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me.” (Gal 2,20). È una frase che dobbiamo ripeterci spesso. “ Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me!”. È questo l’amore, la carità più grande che il Signore ha avuto per noi.

Tutto questo noi lo riviviamo nell’Eucaristia. È l’ultima invenzione, l’ultimo ritrovato dell’amore incredibile che Gesù ha avuto per noi. È il modo concreto che si è inventato per rimanere con noi (anche gli altri sacramenti). L’Eucaristia è, come sentite spesso nella messa, memoriale del mistero pasquale, cioè è il compendio della storia della salvezza, tutta incentrata sulla vita di Gesù. Del Dio che si abbassa fino ad incarnarsi (Natale), a mischiarsi con gli altri, e si abbassa ancora di più con la morte in croce fino ad andare sottoterra. Per poi risorgere e stare alla destra del Padre. Questo è il mistero pasquale.

Noi, di questo mistero pasquale facciamo il memoriale. Non è fare memoria, commemorare. Questo è ciò che facciamo quando con la nostra mente ci immergiamo nel passato. Rievochiamo gli avvenimenti, corriamo verso di loro. Il memoriale, invece, è l’inverso: sono gli avvenimenti che arrivano fino a noi. Tutto il mistero pasquale giunge fino a noi e noi ne siamo coinvolti: Gesù diventa nostro contemporaneo.

Il memoriale per eccellenza che la Chiesa celebra è l’Eucaristia, nella quale si ri-attualizza la passione, morte e risurrezione di Gesù: Fate questo in memoria di me (Vangelo di Luca 22,19b).

È come se il tempo e lo spazio fossero annientati e quell’evento del passato si rende presente oggi.

Tutto questo rischia di rimanere aria fritta se non viene vissuto. Non si tratta solo di capire i concetti, le nozioni. Tutto ciò va vissuto proprio attraverso la celebrazione. Celebrando noi viviamo ciò che stiamo celebrando. La liturgia è pedagogia in atto. Mentre viene celebrata, mentre viene svolta, ci educa e ci fa crescere.

Per capire bene che nell’Eucaristia noi celebriamo il memoriale del mistero pasquale ci rifacciamo a quella splendida esperienza che la liturgia ci fa fare nel centro di tutto l’anno liturgico, nel triduo pasquale, dalla sera del giovedì santo a Pasqua. In tre celebrazioni noi abbiamo un’unica celebrazione, in tre atti…Nel giovedì c’è anche il venerdì e la pasqua, nel venerdì c’è il giovedì e la pasqua, nella pasqua c’è il giovedì e il venerdì. L’ultima cena, l’istituzione dell’Eucaristia, non ha senso se poi non c’è il venerdì, dove veramente Gesù offre il suo corpo (sarebbero solo segni) e non ha senso se poi non c’è la risurrezione, se tutto si ferma alla morte. Le particolarità delle celebrazioni del triduo, se comprese fino in fondo, ci aiutano a vivere meglio e bene ogni Eucaristia.

L’ultimo passo è: dalla celebrazione alla vita. Quello che ho celebrato, lo trasformo, uscendo dalla chiesa, in cose concrete.

L’Eucaristia si chiama anche Messa perché prende il nome dalle ultime parole della celebrazione che in latino sono: Ite, Missa est. Missa dal verbo mitto, mittere, che significa mandare, inviare. Ite missa est sta a dire che la celebrazione è compiuta ed inizia ora la missione, si è inviati. Quello che è stato celebrato va vissuto, va messo in pratica fuori la chiesa perché è fuori, dove si lavora, dove si vive, che bisogna testimoniare, non in chiesa (troppo facile).

L’eucaristia va celebrata (degnamente!) in chiesa, ma poi va applicata, messa in pratica dove studio, dove lavoro, dove mi diverto. L’Eucaristia, di per se, mi trasforma in ciò che celebro, in ciò che ricevo. Se ho ricevuto il corpo di Gesù, che si è donato a me, anche io debbo donare la mia vita per gli altri, debbo fare della mia vita un dono. Prendete e mangiate, prendete e bevete non sono parole magiche che servono per trasformare il pane e il vino. Sono anche uno stile di vita che pian piano dobbiamo fare nostro. Dobbiamo farlo in sua memoria (fate questo…). Allora la messa non è solamente un rito…

Ricapitolando:

  1. Dio mi ama. Ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito perché il mondo si salvi per mezzo di lui. (Gv)

  2. Debbo sperimentare questo amore. Non si ama a parole o a distanza. C’è bisogno della frequentazione. Questa esperienza si fa nell’Eucaristia.

  3. Dall’Eucaristia io attingo l’amore, la forza, l’energia…per riversare sugli altri ciò che ho ricevuto. E questo è il momento della missione, dell’impegno. Io prima ‘faccio il pieno’ all’Opera di carità, per poi rendere vere le opere di carità.

SCARICA IL PDF DELLA CONFERENZA

Il testo integrale della conferenza è stato gentilmente fornito nella sua versione integrale dallo stesso da Mons. Paolo.
Un sentito ringraziamento da parte di tutta la Tendopoli di San Gabriele.